Stavo leggendo ‘Il coccodrillo’ di Dostoevskij in metropolitana, quando ho incontrato una conoscente che mi ha chiesto che cosa ne pensassi. Forse in difficoltà perché mi sembrava che non stessi apprezzando il libro tanto quanto avrei dovuto (mentre la malcapitata probabilmente voleva solo far conversazione), mi sono invece fatta prendere dall’entusiasmo su una cosa a me cara: Il coccodrillo non l’avevo ancora finito, ma parlando di Dostoevskij I fratelli Karamazov l’aveva letto?, un capolavoro da far tremare le vene nei polsi!, la letteratura – forse la vita intera! – non sarebbero le stesse per noi oggi senza Dostoevskij, anzi senza il contributo russofono alla letteratura (anni fa mi sono offesa perché una professoressa a mio vedere insultò Alëša Karamazov, e chiaramente ancora non l’ho superata). Mah, ha fatto spallucce lei, può anche darsi, ma tu hai scelto di studiare il russo, e allora ti sei appassionata e ora hai il lusso di pensarla così, a me invece il russo fu imposto. Insomma, passioni di un’anima con del tempo libero, a leggere libri al caldo dell’Europa occidentale, magari tradotti in una lingua che ci viene a genio. La mia conoscente è una donna moldava di mezza età, viene da una piccola città al confine con l’Ucraina.
Mentre scrivo, a Tbilisi in Georgia i manifestanti continuano a riunirsi giorno dopo giorno affollando le strade, sfidando le temperature invernali, gli idranti, la repressione della polizia, sventolando bandiere georgiane insieme a bandiere europee, in un mare di stelle gialle. Gli arresti, soprattutto di giovani giornalisti, si contano a centinaia. La protesta in atto è contro i risultati delle elezioni dello scorso 26 ottobre, vinte dal partito Sogno Georgiano, per cui i dimostranti denunciano brogli.
All’indomani dalla vittoria si è ripetuto un copione ahimè già visto (il Sogno georgiano ha immediatamente annunciato che avrebbe sospeso le trattative per l’adesione della Georgia all’Unione Europea e sospeso le richieste di fondi, dichiarando le proteste fomentate da potenze straniere, ingaggiando una fantomatica battaglia contro il fascismo liberale [sic]). “Se il governo georgiano non è per l’Europa, allora è con la Russia”: così ha riassunto la dicotomia fra occidente e oriente un manifestante alla Deutsche Welle durante una protesta a Tbilisi. L’ex repubblica sovietica di Georgia (già terra natale di Stalin) ha certamente un legame complicato con l’ingombrante vicino russo: ottenuta l’indipendenza nel 1991, fu invasa dalla Russia nel 2008 a margine del conflitto per l’Ossezia del sud; le tensioni si sono rinnovate con l’invasione russa dell’Ucraina due anni fa, quando tra l’altro un numero notevole di cittadini russi riparò in Georgia. Ne La santa tenebra (un libro di memorie sui gulag sovietici negli anni ‘80) Levan Berdzenishvili – dissidente, samizdatčik e poi politico georgiano dopo l’indipendenza – descrive un episodio drammatico: prigionieri di guerra sovietici che, rilasciati dai britannici alla fine della seconda guerra mondiale, stretti fra le baionette inglesi e il ritorno in Unione Sovietica, costretti a scegliere preferirono in massa la morte gettandosi da un ponte (non tutti, certo: un suo compagno di prigionia per esempio corse invece a casa allegro e sorridente per poi riconoscersi a farlo decenni dopo appunto da un gulag, durante la proiezione di un filmato. Il libro è anzitutto un trionfo dell’umorismo e dell’intelligenza umana sull’ottusità del sistema sovietico).
La questione di possibili brogli e interferenze straniere sulle elezioni è drammaticamente all’ordine del giorno: negli ultimi mesi in Europa, oltre alla Georgia, basti pensare al recente dibatto addirittura in un paese membro, la Romania, e già in Moldavia l’ottobre scorso, quando un referendum per una modifica costituzionale circa l’ingresso nell’Unione Europea è passato per un pugno di voti (mentre i media italiani, fedeli alla tradizione decennale per cui Bucarest vale un Budapest in Europa centro- orientale, si affrettavano a riportare la vittoria del no ad urne ancora aperte, la BBC pubblicava materiale su una compravendita di voti talmente sfacciata che i suoi operatori ci si erano imbattuti senza neppure cercare).
L’Unione Europea è oggi alla ribalta delle cronache, appassiona le opinioni pubbliche ed è oggetto di discussione quando non di scontro politico, specie ai suoi confini orientali, fra i paesi candidati o potenziali candidati. L’Europa è anche un mosaico di sensibilità storiche e sociali diverse, lingue e prospettive che si conciliano ma non dissolvono in una prospettiva politica comunitaria: uniti nella diversità, come da motto. “Si fa presto a dimenticarselo, ma fuori fa freddo”, ammonì all’indomani della Brexit un diplomatico di un paese candidato, ovvero: molto di quanto abbiamo la fortuna di dare per scontato ormai da decenni in questo continente, fra paesi membri, è una conquista agognata altrove, anche fra chi cerca di entrare. Per esempio la democrazia, lo stato di diritto, la pace, il relativo benessere, la sacralità dell’individuo e delle sue scelte, o anche solo il privilegio di riflettere con serenità sull’enorme contributo della lingua e cultura russa all’umanità, quando questa non ci viene imposta.
Francesca Varasano