Caffè Europa

Quo usque tandem?

today14 Aprile, 2025 58 18

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Fino a quando questa tua pazzia continuerà a raggirarci? Dove arriverà la tua sfrenata arroganza? E soprattutto – uno degli incipit più famosi di sempre, quello noto a tutti gli studenti ginnasiali e di certo ai loro professori: fino a quando abuserai della nostra pazienza? Così Cicerone a Catilina nel 63 avanti Cristo, accusandolo della famigerata congiura, ma ancor di più per denunciarne quello che secondo Cicerone era impossibile non vedere: la follia tracotante di chi sembra non conoscere limiti o decenza.

Lo scorso due aprile, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è emerso fra un torneo di golf e l’altro per mostrare al mondo due tavole di biblica memoria che enunciavano non già i comandamenti a un popolo timorato di Dio, ma gli ormai arcinoti dazi applicabili a tutto il mondo conosciuto, a oriente e a occidente, a terre abitate e a lande deserte (insomma a tutti fuorché Russia, Bielorussia, e Corea del Nord). È il Liberation day, secondo la definizione dello stesso presidente (liberazione da chi o da che cosa non è chiaro). Con il fare compiaciuto di chi ha appena imparato una parola nuova, Trump ha spiegato che si trattava di dazi reciproci, compitandolo: re-ci-pro-ci (qualche tempo prima, in conferenza stampa, il presidente si era scontrato con un’altra parola evidentemente ostica, groceries, la spesa al supermercato, espressione a suo dire desueta). I suddetti dazi però, come ormai noto, non sono affatto simmetrici – l’Unione Europea, per esempio, che del libero scambio ha fatto una delle sue cifre tradizionali, applica dazi fra il 2 e il 3%, non certo il quasi 40% delle famigerate tabelle. Dal Financial Times a Il sole 24 ore, gli economisti hanno cercato di chiarire la formula balzana usata per il calcolo dei dazi: in sostanza, a partire da un minimo del 10% per tutti (tranne appunto Russia, Bielorussia, e Corea del Nord), la metà del rapporto fra deficit commerciale ed importazioni. I dazi proposti sono grotteschi, e sembrano ignorare completamente la complessità del commercio mondiale, oltre che colpevolizzare i paesi che esportano verso gli Stati Uniti (ma al Botswana che esporta diamanti e ha un PIL pro capite risibile, che cosa si può ragionevolmente chiedere di importare dagli Stati Uniti?). Le reazioni, ovviamente, non sono tardate: da quella veemente della Cina a quella europea in via di concertazione, dettata dalla prudenza e dalle differenze di posizione fra Stati membri (alcune aree politiche europee sembrano scoprire ora i vantaggi del commercio libero e i danni del protezionismo, accarezzando persino l’idea di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, un accordo – giova ricordarlo – intavolato dalla Commissione già una decina di anni fa, ostacolato da quegli stessi partiti e da parte dell’opinione pubblica europea, e in definitiva abbandonato per divergenze sostanziali, come quelle in ambito di standard di sicurezza alimentare). Con una rapida inversione di marcia, l’applicazione dei dazi è stata poi messa in pausa (per tutti, o almeno molti, ma non per la Cina). Dazi sì, dazi no, dazi chissà: i mercati finanziari sono in subbuglio, le borse recuperano dopo uno schianto (i maliziosi si chiederanno chi ci guadagni).

Un editoriale del Guardian ha definito il comportamento del presidente Trump quello di “un bullo paranoico di dodici anni, convinto che tutti gli abbiano fatto un torto e deciso a vendicarsi”. Di sicuro, fino a poco tempo fa un episodio come questo delle tavole dei dazi ci sarebbe sembrato incredibile, e così la proposta di calcoli raffazzonati eppure capaci di incidere in modo durevole sugli equilibri delicati dell’economia internazionale. Ci sarebbe sembrata incredibile la confusione, le bugie, le minacce a giorni alterni, l’incontinenza verbale. Il “nuovo ordine mondiale” che ne deriva rischia di prendere le sembianze di un disordine, un caos che premia il più forte.

Non si tratta di destra o sinistra, ma di giusto o sbagliato: il discrimine in questo momento è morale”, ha detto il Senatore americano Cory Booker nel suo discorso fiume di 25 ore per protestare contro l’attuale presidente. Ed è evidente che ad ogni latitudine il senso di giusto o sbagliato, vero o falso, non è e non può essere considerato prerogativa di destra o di sinistra, democratico o repubblicano, ma individuale: ogni convinzione di una presunta superiorità morale in politica è malriposta se non ridicola. Non certo da oggi e non certo solo negli Stati Uniti la politica e l’elettorato sembra polarizzarsi fra pulsioni fondamentalmente democratiche e pulsioni più o meno vagamente autoritarie, ripetute a gran voce attraverso un flusso di informazione inarrestabile e fuorviante, e quindi percepite a mano a mano come più ordinarie e perfino appetibili. A prescindere dall’opinione che abbiamo su Margaret Thatcher e Tolkien, sullo stato sociale e sulle tasse, sia che facciamo la doccia sia il bagno – come nella canzone di Gaber -, anzitutto su questo oggi siamo chiamati a riflettere e chiedere alla politica. Qualunque sia il nostro voto, crediamo nello stato di diritto, con i suoi pesi e contrappesi, o crediamo alla legge del più forte e al caos che necessariamente ne consegue? Crediamo nella convivenza pacifica fra nazioni e nella diplomazia, anche quella multilaterale, o diamo credito alle amicizie opache di individui in posizione di potere, con interessi imperscrutabili? Fino a che punto insomma riteniamo che a un capo di stato sia concesso dire (e fare) tutto e il suo contrario, magari nell’impulso di un momento sui social media, come facciamo noi con le foto del mare o del nostro cane, che se non mi piace poi la cancello? La politica americana spetta ovviamente agli americani, ma la risposta europea alla crisi innescata dipende anche dalla risposta di ognuno di noi a queste domande.

Francesca Varasano

Scritto da: Pierpaolo Burattini


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