Avete presente quella famosa scena del film Love Actually? No, non quella dell’aeroporto (“l’amore davvero è dappertutto”, con i Beach Boys in sottofondo), quell’altra: Hugh Grant primo ministro inglese che, in conferenza stampa col Presidente Americano in visita a Londra per negoziati commerciali, gli rinfaccia il significato di “relazione” (internazionale ma non solo, se avete visto il film). Una relazione è un passo a due e si basa su un rapporto di fondamentale parità, non è ammissibile che uno prenda quello che vuole con la forza, aspettandosi che l’altro ceda sempre di buon grado. Un amico che si comporta da bullo non è più un amico: è un bullo, appunto.
All’inizio di febbraio, il primo ministro canadese Justin Trudeau si è rivolto direttamente agli amici americani in reazione alle minacce del neopresidente Trump sull’imposizione di dazi: al di là delle ideologie, ha detto Trudeau, nell’economia interdipendente in cui viviamo, l’imposizione di tariffe commerciali danneggerebbe l’economia e i consumatori americani tanto quanto quelli canadesi.
La realtà e la fantasia si mischiano a colpi di notifiche nel nostro mondo iper-connesso, distinguere il plausibile dall’accertato è per niente ovvio. In poche settimane di presidenza Trump, ogni giorno porta con sé dichiarazioni più roboanti delle precedenti, impensate fino a solo il giorno prima, in un vortice di iniziative al limite della legalità, affermazioni sconclusionate se non false, proclami straordinari, intimidazioni a paesi cosiddetti alleati se non vere minacce: il presidente e il suo entourage non risparmiano le energie, tenere il passo è impossibile. È il nuovo corso, bellezza: un nuovo paradigma internazionale, dicono. Minacce di dazi a Canada, Messico, Colombia. Minacce di dazi a Giappone e Unione Europea (o forse solo alcuni paesi, nell’intento manco troppo velato di minare l’unità continentale). Proposte disumane su Gaza, prese in giro al presidente ucraino Zelensky (“perde la paghetta”, ha scritto su X – già Twitter – uno dei figli di Trump). E ancora: la chiusura senza preavviso di USAID, l’organizzazione americana per la cooperazione internazionale, la più grande nel suo genere. Indiscrezioni diplomatiche parlano della prossima chiusura anche di varie rappresentanze diplomatiche statunitensi in Europa, con lo scopo a medio termine di rimpiazzare non solo gli ambasciatori (la cui nomina è politica, e il cui avvicendamento è prassi), ma il personale diplomatico, da sostituire eventualmente con individui il cui stile politico, diciamo così, sia più affine a quello dell’attuale amministrazione.
Nei rapporti fra stati il confine fra possibile e impossibile, lecito ed illecito si fa oggi così sempre più labile nella percezione comune, a scapito sia del sistema di alleanze che dei singoli paesi: insomma, di tutti. Dopo solo poche settimane, un elenco completo dei paventati provvedimenti americani è difficile da stilare, soprattutto perché le parole sembrano aver perso il loro peso, e levitano leggere nell’aria, anzi soprattutto su internet. Nei rapporti fra stati vale però, tra le altre, una regola chiara: pacta sunt servanda, i trattati vanno rispettati, e più in generale la parola data conta (un po’ come fra amici, per tornare sul discorso). Ma nelle relazioni internazionali le alleanze si costruiscono tradizionalmente non fra cosiddetti (di solito per auto-acclamazione) uomini forti o in base ad amicizie e simpatie speciali, ma fra interi sistemi-paesi dotati di apparati funzionali e affidabili che si integrano o almeno comunicano secondo regole precise, volte anche a minimizzare il rischio di fraintendimenti con conseguenze catastrofiche: questo perché gli uomini passano (per fortuna), ma le istituzioni che rappresentano (si spera) restano. Quale sistema internazionale si può invece sperare di costruire minacciando a ogni piè sospinto, senza aver ricevuto provocazione alcuna, le alleanze strette da decenni? Quale ordine (o disordine) internazionale può emergere quando i paesi con interessi convergenti sono trattati alla stregua di paesi ostili?
Già dalla Guerra fredda, le potenze mondiali hanno deciso di occuparsi della cooperazione allo sviluppo non solo per ragioni puramente umanitarie e morali, ma perché è una buona idea. La cooperazione estende l’area di influenza di una nazione avanzata, crea avamposti per la raccolta di informazioni e future alleanze, contribuisce direttamente o indirettamente alla stabilità di aree storicamente instabili. Programmi di cooperazione ben pensati e gestiti possono incidere a lungo termine su alcune delle questioni che più occupano il dibattito politico contemporaneo, come l’economia, gli scambi commerciali, le migrazioni (il famoso “aiutiamoli a casa loro”, ritornello di alcuni). Se gli Stati Uniti si tirano indietro – come indicato dalla cessazione improvvisa delle attività di USAID – cui prodest, a chi giova, e chi occuperà invece quegli spazi di influenza, in un mondo messo alla prova dalla scarsità di risorse, da crisi demografiche e sanitarie, da competizione economica e diseguaglianze? La Cina e la Russia, manco a dirlo, hanno accolto con favore la decisione di Trump su USAID (tra gli altri, USAID finanziava progetti sulla libertà di informazione, a sostegno di dissidenti, minoranze, e prigionieri politici).
Il mondo nuovo è una novella distopica scritta negli anni ’30 dallo scrittore inglese Aldous Huxley. Il “mondo nuovo” è un mondo rigidamente diviso in caste e modellato sulla catena di montaggio automobilistica, in omaggio ad Henry Ford. I suoi cittadini parlano un linguaggio pure quello nuovo, che dovrebbe aver spazzato via il vecchio. Il titolo originale inglese (Brave new world), echeggia Shakespeare: il mondo nuovo è pure eccellente, vorrebbe cioè imporsi come utopia di perfezione e efficienza (naufraga invece sulla natura umana, e diventa un incubo, una distopia, appunto).
I mondi nuovi che ci vengono promessi con parole magniloquenti (o anche con slogan grossolani e sdegno delle strutture logiche e sintattiche, a seconda del gusto del tempo) si rivelano inevitabilmente stantii, soffocanti, deficienti di umanità. Il vecchio mondo costruito a poco a poco con sacrificio e costanza, quello sì sarebbe da difendere, e magari migliorare un pezzetto alla volta, per quello che ci è possibile.
Francesca Varasano